Negli ultimi tempi, si torna a parlare in modo piuttosto frequente di filter bubble ed echo chamber rispetto ai contenuti che otteniamo dalla Rete, quando cerchiamo online delle informazioni che ci interessano.
Il termine "filter bubble" (bolla di filtraggio) è stato coniato da Eli Pariser nel suo libro “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You” per identificare «quell’ecosistema personalizzato dell’informazione creato dagli algoritmi»; una vera e propria "bolla" di informazioni limitate in cui ogni utente viene chiuso.
La causa sono i sistemi di personalizzazione dei social media e dei risultati delle ricerche. Ogni volta che un utente effettua una ricerca online, ricerche precedenti e posizione vengono sfruttati per offrirgli risultati su misura.
Sui social media, ad esempio, per ogni utente l'esperienza può cambiare in base a like messi e link cliccati: Facebook propone post che ritiene siano rilevanti ed interessanti per i rispettivi utenti. L'algoritmo sceglie contenuti simili a quelli con cui di solito ognuno interagisce.
In questo modo però le persone si ritrovano in una "cassa di risonanza" in cui vengono proposte principalmente informazioni che non fanno altro che confermare ciò che ognuno già pensa. Le risorse che invece potrebbero mettere in discussione il loro pensiero sono scartate e più difficili da raggiungere.
Questo spiega anche il successo delle fake news. Le bufale vengono alimentate in una bolla di filtraggio in cui possono diffondersi in modo incontrastato, fino ad acquisire lo status di notizie.
Il filter bubble è un fenomeno positivo o negativo?
Nel suo libro del 2011 Pariser critica la bolla di filtraggio e afferma che «ci taglia da nuove idee, argomenti e informazioni importanti» e «crea l'impressione che i nostri interessi personali siano tutto ciò che esiste». Studi successivi (2014-2018) hanno dimostrato che sicuramente gli algoritmi presenti sui social e in generale su internet influenzano e tendono a riproporre informazioni che confermano gli interessi di chi li utilizza, ma non in modo così preponderante e limitante.
Altri studi ancora, invece, affermano che questo fenomeno sia più positivo che negativo. Ad esempio, uno studio scientifico della Wharton School in Pennsylvania del 2020, condotto da Hosanagar e Miller, sostiene che i risultati delle ricerche dipendono dal modello adottato e da come vengono condotti gli esperimenti. Un’ampia analisi, sviluppata su tutta una serie di canali e strumenti operativi sui social (aggregazione di notizie, motori di ricerca, riferimenti diretti, etc.), evidenzia che la stragrande maggioranza del consumo di notizie online imiti le tradizionali abitudini di lettura offline, con gli individui che visitano direttamente le home page dei loro siti preferiti.
In definitiva, gli algoritmi accentuano ed esaltano i suggerimenti personalizzati, dunque questi filtri possono creare comunione, non frammentazione, in quanto i consumatori sfruttano i loro filtri per espandere i loro gusti, invece che limitarli. Facendo un esempio pratico, se mi interessa e cerco online un artista di un particolare genere musicale, l’algoritmo mi farà conoscere un nuovo musicista che appartiene allo stesso genere, dandomi nuovi spunti di ascolto.
Bisogna comunque ammettere che le filter bubbles esistevano già prima di internet. Le persone che frequentavano cerchie di amici, centri culturali e sportivi, bar, etc. formavano delle casse di risonanza anche senza l’esistenza di Google o Facebook: Internet ha solo amplificato tale fenomeno, offrendo una maggiore diversità di argomenti ed opinioni, a portata di click.